Fondi pro ricerca sul mesotelioma: «Dove sono finiti?»

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Posted on 20 marzo 2015

Fondi pro ricerca sul mesotelioma«Dove sono finiti?»

«Ho cominciato a lavorare in farmacia e lì c’era amianto ovunque: bancone, scaffali, tavoloni, ripiani… tutto d’amianto. C’era un operaio che faceva la manutenzione. Raschiava… stuccava… verniciava ed è morto di amianto!».

Comincia così il racconto di Marisa Cappa, ex infermiera del Santo Spirito, dove ha prestato servizio dagli Anni ‘Settanta al 2000.

«Sono in pensione e sono “portatrice sana di mesotelioma”. Io mi definisco cosi», dice Marisa perché il cancro ha sì cambiato la sua vita, ma non ha piegato il suo spirito combattivo: «Sono un incrocio tra il filo spinato e un bull terrier… Ho sempre fatto le battaglie che credevo giuste e le ho sempre vinte, perché se parto non mi fermo fino a quando non arrivo in fondo».

Ma l’amianto era ovunque, torna a raccontare Marisa, che non vuole soffermarsi sulla sua malattia.

Nessuna autocommiserazione, neanche l’ombra: «In tutte le stanze dell’ospedale c’era il tubo di scarico del lavandino in eternit, e in cemento-amianto erano tutti i tetti dell’ospedale.

«Lavoravo in Rianimazione e tutte le mattine c’era polvere sul terrazzo esterno al reparto, uno strato di roba bianca alto due dita che bisognava scopare via. Cemento? Amianto? Cemento e amianto insieme! “Ho girato tutti i reparti… Per passare dai magazzini bisognava camminare sotto ai tubi ricoperti di isolante che si sfaldava. E c’era un cumulo di detriti di eternit che venivano ammassati dietro al baretto, una bella montagnola! E che servivano per riempire i buchi del parcheggio. E sempre con gli scarti di eternit si facevano i sentieri ».

La ricerca e… Scagliotti

Ma il vero problema che sta a cuore a Marisa è la questione della ricerca scientifica.

«Ho letto il servizio sul “progetto Scagliotti” e ho detto a mio marito: “Voglio parlare con questo giornalista”, perché quella è solo la punta dell’iceberg. Il problema è la ricerca sul mesotelioma, la ricerca che non esiste…».

Il cosiddetto “Progetto Scagliotti” è quello relativo a una struttura organizzativa che coinvolge 14 centri e nel quale sono elencate voci di spesa che suscitano parecchi interrogativi: un sito internet che non risulta esista, un rapporto stampa che non è mai stato diffuso, riunioni (quattro!) da 15mila euro l’una e spese telefoniche per 70mila euro. Costi sui quali lo stesso referente, il professor Giorgio Scagliotti, non ha saputo o voluto – per ora – dare spiegazioni.

«Abbiamo fatto le fiaccolate peri morti e per i superstiti – prosegue Marisa Cappa – ma per i vivi? Che cosa è stato fatto? Se avessimo pensato alla ricerca quando era ora oggi sapremmo cosa dire a chi ha il mesotelioma. «Ed è questo l’appello che vorrei fare: lo stesso impegno profuso per dare giustizia a chi non c’è più lo avremmo dovuto impiegare per chiedere che questa gente fosse condannata a pagare tutti i migliori istituti di cura e di ricerca, fino a quando la cura per questa malattia non sarà individuata! So che legalmente non è possibile ma occorreva una battaglia civile su questo! Quello doveva essere il nostro primo e vero obiettivo!».

Dieci anni di informazione

Quello della ricerca è un problema grave e annoso e su cui il nostro giornale da dieci anni insiste cercando di fare una informazione scrupolosa, di raccontare chi – nel mondo – studia questa malattia, purtroppo poco indagata perché le case farmaceutiche preferiscono investire sulle patologie con una alta incidenza per evidenti ragioni legate alle prospettive di guadagno. E poi finanziamenti pubblici non ce ne sono o – se ci sono – vengono utilizzati per progetti che sono incentrati sulla organizzazione e non sulla ricerca e sui quali i responsabili rifiutano paradossalmente di dare spiegazioni. Come è accaduto di recente. Sulla ricerca insistette a più riprese Lillo Mendola di Afeva Bari: «Mettiamoci lo stesso impegno che c’è per la giustizia», ha ripetuto in più occasioni in cui è stato a Casale.

E le risorse della transazione?

«Un’altra cosa», aggiunge Marisa. «Sarebbe giusto che Afeva rendesse pubblico in modo dettagliato come ha impiegato i soldi delle transazioni che noi cittadini abbiamo sottoscritto con Schmidheiny e che erano destinati alla ricerca. Le transazioni firmate dai cittadini con lo svizzero avevano infatti come corollario l’accantonamento di 20mila euro per ciascuno caso da destinare alla ricerca scientifica. Risorse che secondo l’accordo AFEVA doveva destinare alla ricerca, in accordo con l’ASL. Cosa che non avrebbe escluso – tuttavia – un confronto serio e aperto su come destinare le risorse che l’associazione Nuove Frontiere aveva auspicato pubblicamente. «Finanziamo diverse iniziative di ricerca medica – dice Marisa Cappa – e periodicamente riceviamo una comunicazione che ci dice come vengono impiegati i fondi raccolti. L’unico caso in cui non sappiamo niente è quello dell’AFEVA». E questo è un quesito che a Casale si pongono in tanti e che tanti nostri lettori hanno posto al giornale in più occasioni. Ora Marisa ha ritenuto giusto renderlo pubblico e levare la sua voce coraggiosa per evitare che il silenzio continui a frenare la conoscenza e la trasparenza.

Ma la ricerca ignorata…

Quanto alla ricerca non è che non si faccia. Sembra piuttosto che per ragioni oscure sia stata tenuta a debita distanza dal microcosmo decisionale casalese. E dire che da queste stesse colonne abbiamo raccontato degli studi che vengono svolti alle Università di Alessandria dalle equipe dei professori Stefano Biffo e Bruno Burlando, a Novara dai ricercatori guidati dalla professoressa Laura Moro,del vaccino inventato dal biologo milanese,docente alla Università Statale, Antonio Siccardi e che viene sviluppato alle Hawaii dall’alessandrino Pietro Bertino (con mille difficoltà di finanziamento), delle nuove metodiche radiologiche ideate a Toronto da Marc De Perrot, della immunoterapia sviluppata a Siena dal professor Michele Maio, delle ricerche di base svolte dal professor Giovanni Gaudino sempre tra Novara e le Hawaii. E poi degli studi effettuati da Michele Carbone in Cappadocia sulla erionite, una roccia vulcanica che causa il mesotelioma al pari dell’amianto, che alle sei del mattino ci ha spiegato – al telefono da Honolulu – le sue ricerche.

E – ancora – dell’importante e serio lavoro di studio sui geni alterati nel mesotelioma effettuati dai ricercatori che fanno riferimento al professor Stefano Landi a Pisa e che potrebbero spiegare di più su questo tumore maledetto su cui si sa così poco, ma che proprio in queste settimane rischia di essere interrotto per mancanza di finanziamenti, perché nessuno si è preso nemmeno la briga di valutare il loro lavoro e di considerare se sia meritevole o no (mica è scontato) di un sostegno economico! Ma la situazione è la stessa per tutti questi ricercatori, nessuno risulta sia mai stato contattato nemmeno per capire che tipo di lavoro stanno svolgendo. Una situazione a dir poco assurda. E poi della intensa attività deprofessor Luciano Mutti che insieme alla Fondazione Buzzi e al GIME ha puntato sulla ricerca traslazionale e del trattamento da lui stesso ideato e utilizzato ormai da molti anni con il Gleevec e la Gemcitabina e che ha portato risultati importanti per parecchi pazienti, che non reagivano ad altre terapie e per i quali la malattia progrediva. Si sa addirittura di un caso di totale regressione di malattia: il tumore è sparito e mai più tornato. «Non scriva che abbiamo trovato la cura», ci aveva detto il dottor Tassi di Brescia quando lo avevamo chiamato e noi non ce lo sognavamo proprio di dare quella notizia in quel modo. Perché a Casale – purtroppo – lo sappiamo bene che non c’è una terapia che funziona per tutti. Ma anche negare i risultati positivi che si ottengono e che possono dare speranza è crudele e insensato. E – altra assurdità – non si sa neppure su quanti funziona perché un trial serio che chiarisca la situazione non è stato fatto. E quello in corso all’Humanitas nasce tra i dubbi e con divergenze scientifiche su cui si sa così poco, ma che proprio in queste settimane rischia di essere interrotto per mancanza che – secondo lo stesso Mutti – rischiano di vanificarne l’attendibilità selezionando per il trial, paradossalmente, solo i pazienti più resistenti, quelli che hanno il cosiddetto “recettore”. Insomma – secondo Mutti – se viene svolto in questo modo si dimostrerà che non funziona, ma solo perché è stato fatto un errore di impostazione di fondo. Peraltro sarebbe bastato inserire nel trial anche i pazienti senza recettore e vedere poi quali rispondevano meglio. E se le cose andranno effettivamente così tanti che si potrebbero giovare di questo trattamento in futuro non lo potranno invece fare mai più. Ma allora a cosa servono i trial?

A cosa serve la scienza se delle contrapposizioni e questioni di puntiglio impediscono di scoprire se una cura è davvero utile o no?

“Che fine hanno fatto i soldi?”

Ma riprendiamo il filo del ragionamento da dove l’ha lasciato Marisa: «Noi abbiamo fatto la transazione, ma non abbiamo accettato per quei quattro soldi e non ritengo logico che si diano obbligatoriamente 20mila euro per la ricerca e che nessuno ne dia conto. Altrimenti, guardi, metterei a disposizione anche gli altri… Che fine hanno fatto quei soldi che sono ormai diventati milioni? Io lo voglio sapere! Che siano stati accantonati e mai usati è uno schifo!». 

Toni forti che sono anche comprensibili per chi si trova ad affrontare una malattia così spietata e ingiusta. Tanto più se non ha mai avuto – come si suol dire – “peli sulla lingua”.

«Lo sa, signora, che ci sarà ci avrà il cattivo gusto di dire che qualcuno la strumentalizza e che si specula sul dolore, vero?», le chiediamo.  

«Chi mi conosce, glielo dico io!, non potrà mai pensare che io venga strumentalizzata. Non mi faccio condizionare da nessuno! «E voglio sottolineare – aggiunge Marisa – che tutto questo lo faccio non per interesse mio personale, perché per me ormai non c’è più speranza, lo faccio per chi verrà dopo di me, per chi si ammalerà in futuro, perché vorrei fare in modo che con la ricerca si salvino quelli dopo di me… Per me è tardi. «E poi perché non tollero le ingiustizie… Sono tanti che la pensano come me. Adesso facciano sentire la propria voce, sennò la ricerca non partirà mai!».

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